Testi Critici
Marilena Ramadori: Archipittura
di Davide Silvioli
Non capita tanto spesso di constatare una rete di corrispondenze così nitida tra un artista, l’entità del suo linguaggio e il suo contesto geografico-culturale di provenienza. Invero, uno dei primi tentativi, avvenuti nel corso della storia dell’arte del Novecento, mirati a coniugare architettura e pittura, ossia i due poli disciplinari alla base della prassi artistica di Marilena Ramadori (Montegiorgio, 1965), si deve all’indimenticato Osvaldo Licini (Monte Vidon Corrado, 1894 – 1958). È stato lo storico artista marchigiano, ai tempi della sua frequentazione della Galleria il Milione di Milano e quindi della sua ricerca rivolta all’astrattismo, a ideare il neologismo “Archipittura”, coniato per titolare alcuni suoi lavori. Pur considerando le evidenti differenze che intercorrono tra il lessico dell’uno e dell’altra artista, è indubbio, tuttavia, denotare come il termine di “Archipittura”, qui infatti ripreso alla luce di una compatibilità di matrice esclusivamente concettuale e non stilistica, risulta quantomai efficace sia per racchiudere che per descrivere l’indole più profonda dell’operato della Ramadori.
L’autrice, al netto dei suoi studi in materia d’architettura, professa, effettivamente, una pratica che congiunge pittura e architettura, annullando qualsivoglia confine tra l’esercizio pittorico e il dato architettonico da cui lo stesso trae fondamento, senza prevedere tra i due ambiti un legame di prima e di dopo; di autentico e di derivato. Le sue realizzazioni, pertanto, divengono luogo d’incontro tra le proprietà di questi due saperi, dalla cui unione sulla tela nasce un’estetica sì autonoma ma che, al contempo, mantiene aspetti tipici dei due campi disciplinari d’origine, stemperandoli nell’unisono di un medesimo alfabeto.
La mostra, a partire da queste premesse, dà voce alla sperimentazione della pittrice, delineando un dettato espositivo che pone in dialogo due cicli di opere improntate su soggetti diversi ma che, una volta poste in simmetria, si avvertono come complementari, similmente al modo tramite cui, nella sua ricerca, pittura e architettura, seppur diversificate, vengono messe in relazione reciproca. Dunque, il nucleo delle opere incluse nel progetto, che pone in rilievo la capacità dell’artista di uniformare sotto la natura univoca della propria cifra espressiva l’eterogeneità dei soggetti prescelti, è costituito – come già accennato – da due serie di dipinti: una focalizzata su grandi opere d’architettura contemporanea della città di Roma e un’altra dedicata alle strutture avveniristiche delle più conosciute sedi museali internazionali. Tra le costruzioni ritratte appartenenti all’uno e all’altro gruppo, si contano, tra quelle in esposizione, il Guggenheim Museum di New York, il museo Mart di Rovereto, il National Museum del Qatar, così come, per Roma, il Mercato Metronio, la Stazione Termini, il Palazzo dei Congressi. A prescindere tanto dalla tipologia quanto dalle caratteristiche del soggetto da lei prescelto, a risaltare, nei lavori dell’artista, è l’inclinazione a diluire il regime della visione architettonica nel calore dell’esperienza pittorica e viceversa, correlando, nell’opera d’arte, le ragioni rispettive delle due discipline secondo un nesso di perfetta parità, che restituisce un complessivo senso di equilibrio.
Nelle opere in mostra, allora, si riscontri come il modus operandi della Ramadori vada, innanzitutto, a diminuire la consueta rigidità della fisica dell’architettura insieme al peso dei suoi materiali, riducendone l’intensità nel districarsi del divenire morbido della pittura stessa, che, così intrapresa, diventa lo strumento per far sfumare la realtà effettiva del fatto architettonico verso una dimensione di trascendenza, a fronte dell’assenza, nei suoi dipinti, di coordinate concrete di spazio e di tempo. Difatti, secondo tali accenti operativi, l’artista, successivamente a una previa fase di accurata analisi condotta nel merito delle peculiarità del sito architettonico di riferimento, sembra sottrarlo, nel convertirlo in termini pittorici, dallo scenario urbano e umano che lo accoglie, al punto di riformularlo profondamente. Di ogni soggetto si vede raffigurata solo una parte, una sezione, che, a ogni modo, pur negando alla vista la totalità dell’immagine, non impedisce di ricondurre al riconoscimento della struttura originale. Questi dettagli sono come immersi in un sovrapporsi di segni e stratificazioni, dove a prevalere è la materia sensibile del colore, con il variare dei suoi umori cromatici, luminosi e formali. Tale approccio termina nel configurare superfici dotate di uno spartito visivo non ascrivibile immediatamente a una sola nomenclatura critica e che, perciò, conversano costruttivamente con tanta storia dell’arte. I lavori delle serie in questione, in effetti, paiono riverberare nel loro statuto, rigenerandola, l’antica maniera della pittura di veduta. Inoltre, come sospese tra veridicità oggettiva e rielaborazione personale, perciò tra realismo ed espressionismo, le opere in oggetto dimostrano un denotabile e significativo senso del metafisico, percepibile in particolare nelle atmosfere contenute nelle tele. È quest’ultimo aspetto, ovvero la capacità di comunicare la tensione verso un sentire di ordine immateriale, a collocare il lavoro dell’autrice al di fuori del perimetro della mera figurazione. Il quantitativo di soggettività da lei immesso nella riformulazione dei modelli di partenza, determina e sostanzia la resa del dipinto finale, dunque il suo modo di porsi esteticamente. La pittrice, perciò, non si limita, freddamente, a descrivere in forme didascaliche un attributo architettonico o un suo connotato ma, al contrario, tende a elevare a icona, attraverso la manualità calda della pittura, la relatività di un edificio in quanto luogo dall’aura esistenziale, perciò al centro del decorrere del vissuto ora individuale e ora collettivo.
Esattamente come in una metonimia, Marilena Ramadori ricorre a una parte, isolandola, per trasmettere l’intangibile complessità del tutto.
Spazi riconosciuti Dentro e fuori l'opera di Marilena Ramadori
di Francesca di Giorgio
Sin da piccoli ci insegnano a distinguere tra ambiente naturale e ambiente antropizzato, a mettere su due piani sostanzialmente distinti elementi naturali ed elementi antropici. Suddividere, raggruppare, classificare sono azioni che potremmo, quindi, definire innate, talmente spontanee da avvicinarsi a certi automatismi mentali, meccanismi della mente che arrivano a sfiorare la sfera dell’abitudine, del già conosciuto.
Accade così che di fronte ad una delle architetture dipinte da Marilena Ramadori, nelle sue differenti serie, ci si trovi davanti a ciò che pensiamo di conoscere anche noi con un discreto margine di sicurezza. Diremmo, allora, come potremmo dichiarare, allo stesso modo, di fronte ad un ritratto, che abbiamo riconosciuto qualcosa o qualcuno, incontrati in un tempo più o meno recente. Per un attimo la familiarità di ciò che stiamo osservando sposta la nostra attenzione sul dato più ovvio ma che evidentemente si rivela da subito non essere l’unico ad abitare il quadro.
Le opere di Ramadori rappresentano il vero, ma fortunatamente per noi lo fanno solo in parte. La verità della pittura dell’artista, dalle più famose opere di architetti internazionali, ai balconi di differenti complessi residenziali e alle “Palazzine Romane”, è parziale. Quelle che vediamo sono porzioni di verità tanto quanto i particolari di architetture trasposti sulla tela. Non vedremo mai le architetture nella loro totalità, indicativo è il fatto che proprio la facciata di Cinecittà, tempio dellafinzione, tra gli ultimi oli su tela, sia una delle più complete, in termini di visione complessiva della facciata di un edificio. Non parliamo però di valore dell’incompiuto e del non finito. Tutte le opere sono complete, evocano una parte mancante pur non desiderandola affatto. Perché il momento della pittura di Ramadori vive nel tempo della scelta, dell’artista stessa, di cosa dipingere, a quale particolare affidare autonomia espressiva e il ruolo da protagonista sulla scena.
Nel progetto pittorico di Marilena Ramadori le fasi fondamentali sono, quindi, la ricerca e l’analisi. L’idea di cosa dipingere viene suggerita all’artista dalle architetture stesse. Quelle studiate durante il suo percorso alla Facoltà di Architettura di Roma, quelle scoperte viaggiando ma anche quelle architetture meno referenziali, quelle che si incontrano mentre si cammina e ci si perde nello spazio urbano, soprattutto se si ha la fortuna di vivere in una città come Roma, una sorta di archivio a cielo aperto.
Lo studio compositivo dell’opera si sviluppa attorno all’idea di un’inquadratura personale dove il bilanciamento tra pieni e vuoti, tra zone chiare e scure non lascia spazio per quelli che l’artista definisce «elementi di distrazione».
Il disegno è preceduto da un primo step/“grado zero” in cui Ramadori prepara le tele con acrilici e/o olio creando le colature che caratterizzano tutti i lavori e seguendo una palette che rientra nella visione di uno spazio che ambisce ad un’astrazione di fondo, pronta ad accogliere l’architettura in dialogo con essa. Il disegno spesso lascia traccia di sé, visibile sulla tela, una sorta di testimonianza del passaggio umano in quelle vedute di esterni dove la presenza fisica è solo percepibile e a volte suggerita da quelle “aperture”, evidenti nella serie delle “Palazzine Romane”: finestre, aperte, semiaperte o chiuse, che suggeriscono, in maniera inequivocabile, la presenza di qualcuno che vive davvero in quegli spazi e che necessita di un dialogo reale tra interno ed esterno.
Anche la stesura del colore, per trasparenze, assume un significato preciso. Rendere manifeste le diverse stratificazioni del dipinto significa raccontarne le fasi che lo hanno attraversato. Nella serie “Architettura Brutalista” l’artista spesso dipinge case: “Villa Spezzotti”, “Villa La Saracena”, “Casa Tizzoni”, “Casa Sperimentale”.
L’architetto Giuseppe Perugini nell’affrontare il progetto della Casa Sperimentale o Casa Albero scrive: “Leon Battista Alberti, nel De Re Aedificatoria, definisce le sei componenti dell’oggetto architettonico: il contesto, le superfici, la suddivisione interna, le pareti interne e esterne, la copertura, le aperture. Io ho preso in considerazione tutto questo quando ho immaginato la Casa Albero, ma ho cercato però di dargli una conformazione nuova, realmente moderna. Per questo non ci sono separazioni nello spazio interno mentre l’esterno è volutamente frantumato in corrispondenza degli angoli – punto forte dei palazzi rinascimentali – per manifestare la libertà di una architettura consapevole sì, ma nel contempo libera dai vincoli costruttivi tradizionali”.
Nel realizzare questo dipinto Marilena Ramadori racconta che in questa architettura, non solo ha visto avanguardia costruttiva, ma anche sperimentazione sul tema dell’abitare: impossibile non pensare alla famiglia di architetti che viveva quegli spazi.
E, ancora: «La serie “Balconies” mi è stata suggerita da ciò che si è verificato durante la pandemia. Il balcone era diventato molto spesso il luogo dove le persone socializzavano ed evadevano la solitudine della quarantena. Quando ho iniziato la serie, non ho visto nel balcone che disegnavo e dipingevo l’elemento architettonico, ma il protagonista di relazioni umane a distanza, un affaccio sul mondo, e la casa un riparo sicuro» racconta l’artista.
È proprio la serie “Balconies”, inoltre, ad invitare a prendere in considerazione un altro aspetto all’interno della ricerca di Ramadori: il “taglio dell’immagine”, il punto di vista dal basso verso l’alto, una scelta che, unita alla preferenza di vedute di esterni, ritenute dall’artista più potenti e immediate, ancora una volta, contribuisce alla creazione di un racconto di architettura legato al tema della città.
Il messaggio è diretto: «l’umanità ha bisogno di rivolgere gli occhi al cielo per contemplarne l’immensità». Un invito ad alzare sempre il nostro sguardo, a non dare mai nulla per scontato, ad essere più attenti a ciò che ci circonda.
Il no-landscape trasognato e lirico
a cura di Angelo Crespi
Da sempre il pittore ha rappresentato il paesaggio che aveva intorno a sé, quasi sempre ritraendo la natura che faceva da sfondo, talora sfumato e vagheggiato, alla figura umana. Tutto poi è cambiato nella modernità, quando l’artista si è trovato a confrontarsi con l’urban landscape, cioè con un prodotto umano che è frutto di dinamiche economiche, sociali, politiche e solo in via residuale naturali. Il paesaggio urbano è di ventato una delle ossessioni di molta pittura moderna e contemporanea. D’altronde la poetica della modernità nasce proprio quando Charles Baudelaire girovaga nella Parigi ottocentesca descrivendone le nascenti contraddizioni, mentre suo coevo Camille Pissarro la ritraeva convulsa e colorata. Nel Novecento la flânerie diventa un modus vivendi di scrittori e artisti, Rainer Maria Rilke ancora a Parigi nei “Quaderni di Malte Laurids Brigge” e Boccioni a Milano con “La città che sale” sono gli avanguardisti che celebrano l’unico orizzonte visivo a nostra disposizione; e infatti, da questo momento, nell’arte non esisterà più natura se non come sublimazione per nostalgici e passatisti, mentre avanzerà il paesaggio urbano che in definitiva è un no-landscape, cioè tecnicamente un ostacolo allo sguardo verso l’orizzonte o verso il cielo: dai futuristi italiani al precisionismo americano, dallo strutturalismo russo fino alla stretta contemporaneità.
L’archetipo della metropoli, cioè New York, è fonte di ispirazione per una serie di grandi della figurazione italiana, pensiamo a Bernardo Siciliano o a Luca Pignatelli, e le città scomparse o che stanno scomparendo lo sono, altrettanto, per Velasco e Alessandro Papetti. In alcuni casi i pittori si concentrano solo sulle architetture (si vedano Marco Petrus o Mauro Reggio, e in certi periodi anche Alessandro Busci), cioè in sostanza rappresentano opere d’arte progettate da altri artisti, o che dell’arte hanno caratteristiche simili, in un gioco di rimandi infiniti, una ekphrasis tautologica, di arte che raffigura altra arte. Su questa linea si muove Marilena Ramadori Zizza, di solida formazione nel settore dell’architettura, architetto essa stessa, che focalizza il proprio sguardo su edifici di grande rigore geometrico, spesso simboli di utopie novecentesche (si veda la casa del portuale, del napoletano Aldo Loris Rossi), ripresi da prospettive insolite e in una sorta di closeup, di compressione visiva, preferendo il dettaglio all’insieme, tanto da esaltarne le forme meno consuete. La tensione – sembra – è di arrivare al limite di una pittura astratta geometrica, fatta semplicemente di pieni e di vuoti, in questo molto vicina ai recenti sviluppi di Petrus che però, vagheggiando le forme e i colori piatti di Mondrian, si nega quell’aspetto lirico o drammatico ricercato invece dalla Ramadori Zizza, soprattutto attraverso la sfocatura dell’immagine e il depotenziamento dell’algido linguaggio dell’architettura contemporanea a favore di una visione trasognata. L’effetto è ottenuto attraverso un velo di colore che di fatto dilava la superficie del quadro, azzurrandola come se la percezione del reale fosse filtrata dalla pioggia, a tratti spingendo sui verdi a tratti sui violacei. Ed anche nelle visioni meno umbratili, quando splende l’arancione corrusco, permane sempre l’effetto di una rappresentazione sollecitata dalla memoria piuttosto che di una raffigurazione suscitata da una fredda razionalità fotografica: la celebre Casa sperimentale di Giuseppe Perugini a Fregene, esempio splendido di architettura brutalista, tutto cemento, calcestruzzo, vetro e acciaio, che oggi è quasi un rudere, relitto di una modernità post futurista, nell’amorevole rappresentazione della Ramadori Zizza, rappresa in una luce soffusa da tramonto romano, acquista di nuovo vita.
Mano felice,
ma prima il pensiero
a cura di Vittorio Sgarbi
Che Marilena Ramadori, in arte Zizza, sia un architetto, non dà adito a dubbi.
La pulizia e la ricercatezza della linea, della profondità e della prospettiva non mentono anche all’occhio meno allenato alle proporzioni.
Nell’intero di un’opera c’è sempre infatti l’indizio di cosa c’è dietro la mano che l’ha creata, se ci sono studi, competenze e passioni che animano l’artista.
E tutto ciò ci dà un rimando diretto, quasi infallibile, di chi si cela dietro la creazione, vale a dire se c’è un pensiero, oltre all’azione del dipingere, che valga la pena accogliere ed apprezzare, come nel caso di Marilena: mano felice, ma prima il pensiero.
Non è infatti un segreto che sia molto più facile rappresentare le figure umane – e su tutto, il viso – poiché si tratta di qualcosa di familiare, che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno e che conosciamo, a partire da noi stessi.
Ciò che rappresenta uno scoglio per la maggior parte dei figurativi è proprio la prospettiva architettonica, creata dall’uomo ma impossibile da disegnare e dipingere senza un serio studio alla base. Così come un’altra nota dolente, quella del colore. Saperlo armonizzare, renderlo vivo e creare toni intriganti e dare così l’idea di una prospettiva aerea in grado di andare oltre la bidimensionalità del quadro dipinto è una grande arte anche questa: freddo e caldo che danno l’idea della luce che scolpisce e dell’ombra che vela richiede anni di osservazione e di prove per l’artista che non si accontenta di far andare la mano. Marilena Ramadori possiede queste arti che si conquistano con l’impegno e con una continua ricerca, sapendole accorpare con la giusta chimica a seconda delle inquadrature dei suoi soggetti austeri, negli affacci dei palazzi e dei contorni che si fanno solo colore, una macchia colata e solenne, isolando ed esaltando l’architettura come contenitore e contenuto quotidiano che ci accoglie e che delinea la città e il nostro vissuto.
Appunti di viaggio
a cura di Claudia Zaccagnini
Che cos’è il viaggio? Nella definizione del vocabolario Treccani è: «l’andare da luogo ad altro luogo, per lo più distante, per diporto o per necessità, con un mezzo di trasporto privato o pubblico (o anche, ma oggi raramente, a piedi)».
Attorno a questo termine si concentra però qualcosa di più complesso. Scopriamo così che il viaggio è un’esperienza formativa che accoglie in sé svariate possibilità.
È un’esperienza fisica, in quanto ci si sposta da un luogo verso un altro.
È un’esperienza conoscitiva che permette di avvicinarsi a nuovi ambienti e culture.
È allontanamento e avvicinamento.
Ma il viaggio può anche assumere una connotazione reale o irreale. Si possono percorrere sconosciuti sentieri in terre inesplorate o si può tranquillamente essere seduti in poltrona e viaggiare con il pensiero.
Spesso il viaggio è metafora di qualcos’altro. Nell’immaginario collettivo il viaggiatore è colui che scopre il mondo ma, di frequente, egli va alla scoperta di se stesso e della sua verità.
Il viaggio che ci propone Zizza si connota come un cammino variegato nel mondo dell’arte, sia sotto l’aspetto temporale – per alcune idee raccolte e plasmate tra il 2015 e il 2018 – sia per quello formale, nel quale la diversificazione dei linguaggi trova linfa vitale in rinnovate emozioni e riflessioni.
Viaggiatrice urbana, l’artista ha fatto dell’iconografia architettonica il centro del suo interesse. La città quale entità strutturale ma anche nucleo fondante del vivere civile, esperienza creativa e associativa, sollecita le sue corde più profonde.
Nel suo taccuino immaginario, Zizza annota i momenti salienti del suo cammino creativo. A volte la rotta la induce a creare città fantastiche, luoghi composti ed essenziali, dalle architetture ordinate e dalle atmosfere sospese. Sono città simbolo, cresciute sotto la spinta di un attento rigore edificatorio ma sorprendentemente inabitate. Ognuna di esse nasce in modo diligente e contiene tutto ciò di cui la città progettata ha bisogno: palazzi, chiese, strade, ponti, piazze, porticati. Ogni elemento concorre a formare un tutto, una piccola cellula dotata delle sue autonomie. L’artista dipinge l’idea di una città dalle coloriture sgargianti, dalle forme lineari. Il suo codice espressivo riaccende la memoria di una grafia fanciullesca, dalle allegre cromie che introducono in un’atmosfera apparentemente fiabesca. In realtà i profondi silenzi e gli spazi vuoti rimandano ad un’analisi attenta sulla realtà urbana contemporanea. Nelle sue città Zizza manifesta l’attuale disagio relazionale e le sue grandi piazze, da cui è bandita la presenza umana, ambiscono ad essere spazi aperti come braccia, pronti all’accoglienza. La sua visione realista è accompagnata da una riflessione possibilista. L’artista crede fortemente alla attuabilità di un mondo migliore e lo esprime introducendo un elemento ancora una volta legato al viaggio: la mongolfiera.
Espressione di salvezza, l’aereomobile è un piccolo mondo in movimento, alla ricerca di nuovi approdi. Sorvola silenziosamente le città vuote, carico di un’umanità desiderosa di pace. Emblema della speranza in un mondo più giusto, accoglie nella sua cesta le particole di una città disgregata, ma ancora necessarie per nuove, metaforiche fondazioni. Zizza, con un eloquio pittorico pacato ma efficace, indugia sulle prospettive urbane lasciando trasparire le sue inquietudini. Ombre profonde proiettano sul selciato le rigorose fabbriche che, come attori immoti, recitano il loro ruolo nella città- teatro. L’artista accoglie nella sua pittura la lezione di De Chirico ma la piega al suo personale sentire.
Una serpeggiante e silente tensione si aggira tra le geometrie dei caseggiati. Essa rammenta lo spaesamento di fronte alle periferie urbane di Mario Sironi, i cui spazi solitari e i cui edifici monumentali costituiscono un motivo ispiratore per la pittrice.
Ma fondamentalmente è all’idea dell’architettura, al suo linguaggio espressivo, che è asservita la ricerca dell’artista. Nuove suggestioni e una raffinata analisi sull’etica e sull’estetica di questa disciplina la stimolano ad abbandonare progressivamente la visione immaginativa per aggiungere un altro tassello al suo iter creativo. Il fascino della purezza delle linee, la leggibilità dei volumi e l’idea che li ha prodotti costituiscono una seducente motivazione per intraprendere uno studio interpretativo sugli aspetti spaziali e costruttivi dell’architettura contemporanea.
“Chiarezza costruttiva portata alla sua espressione esatta. Questo è ciò che io chiamo architettura” (Ludwig Mies van der Rohe, 1925) sembrerebbe essere la discriminante normativa nella sua indagine. Appunta l’attenzione su alcuni importanti edifici che hanno fatto la storia dell’Architettura. Cattura un dettaglio, un’idea estetico-costruttiva o una semplice emozione che scaturisce dalle opere dei “grandi”. Le tracce di Le Corbusier, F. L. Wright, L. Kahn, P. Eisenman, E. Saarinen, L. Moretti, Z. Hadid si fermano nel suo diario di viaggio. L’architettura diviene visione, riconoscimento di una sapienza tecnica ma anche interpretazione di un valore estetico.
L’artista crea delle suggestive atmosfere nelle quali l’elemento geometrico dei volumi e delle linee si coniuga in una perfetta sintesi con i valori cromatici. Nitore della forma e libertà espressiva pongono sotto una nuova luce quei famosi edifici. Zizza ne propone una rinnovata esegesi, tra atmosfere azzurrine ed esplosioni di luce. Le immagini architettoniche affiorano sulla tela come intense evocazioni della bellezza ma anche del rigore costruttivo. L’artista plaude all’idea che le ha generate ma le trasforma in impressioni iconografiche.
Parallelamente alla pittura, si applica alla scultura. L’interesse per i materiali, principalmente ferro, legno e peperino, la stimolano a progettare e ad assemblare elementi in cui lo studio geometrico e volumetrico è asservito ad una forma sintetica. L’attenzione per la simmetria ed il movimento produce giochi di alternanza tra pieni e vuoti, stati di tensione e di quiete. Nelle sue plastiche creazioni affiora l’essenzialità di una visione legata alla purezza di un modulo che si ripete.
E come Ulisse che viaggia verso l’ignoto alla ricerca del sapere, anche il cammino di Zizza – fermato nei suoi “appunti” inventivi – è orientato verso sempre nuove mete.
Marilena Ramadori
a cura di Paolo Levi
Marilena Ramadori “Zizza”, architetto e artista, traspone nelle sue opere la sua formazione insieme alla sua visione della realtà.
Protagonisti sono edifici emblematici che hanno fatto la storia dell’architettura, modificando nel tempo il modo di abitare e di vivere dell’uomo.
Luoghi che sono diventati simbolo per intere generazioni di architetti.
Gli elementi architettonici e il loro estrinsecarsi come forme nello spazio nei suoi quadri diventano veicolo di emozioni e sensazioni collettive.
Risvolti innovativi
a cura di Luca Beatrice
Le città cambiano, crescono, si trasformano in un continuo processo di costruzione e decostruzione nel quale l’uomo è di volta in volta artefice e spettatore. Marilena Ramadori, in arte Zizza, ha incentrato il suo lavoro sul paesaggio urbano contemporaneo, andando alla ricerca non di icone turistiche o da cartolina, ma dell’architettura pura.
Uno dei significati della sua pittura ha a che fare con la volontà di colmare le lacune della nostra disattenzione, di rivelare l’indifferenza non di fronte all’invisibile, sarebbe banale, bensì di fronte a una realtà manifesta di un palazzo brutalista o di un grattacielo. A volte non c’è niente di più ignoto di ciò che si palesa davanti ai nostri occhi, e questo Zizza lo ha ben compreso; negli ultimi anni l’artista si è dedicata a dipingere i balconi degli edifici riscoperti durante la quarantena e a narrare, oltre alla loro forma essenziale, il loro inedito ruolo di socialità.
L’architettura dei suoi quadri diventa un pretesto per giochi di composizione e inquadrature vertiginose che ci dimostrano un risvolto innovativo: se la pittura può essere intesa come forma architettonica capace di costruire delle forme, l’architettura diventa pittura nella strutturazione di un universo fatto di linee, colori e pennellate.